Benozzo Gozzoli, Le triomphe de saint Thomas d'Aquin, 1471

mardi 2 septembre 2014

Breve prospetto sulla nozione di partecipazione

            Ma che cosa è, per il filosofo, la partecipazione di cui abbiamo evidenziato un capitale analogon magisteriale nel messaggio precedente? Cerchiamo ora di offrirne una sintesi ai nostri lettori, che possa essere utile sia al metafisico che al teologo.
            Partecipare, secondo la ricostruzione etimologica dell’Aquinate, significa avere o prendere parte a qualcosa: «Est autem participare quasi partem capere»[1]. Una partecipazione si dà pertanto quando un soggetto ha qualche «parte» di una perfezione che non possiede in modo totale ed esclusivo. Dunque si deve distinguere due estremi nella relazione di partecipazione, che sono il soggetto partecipante e la perfezione partecipata. A questa ultima spettano poi due stati, a seconda che viene considerata in sé stessa, come totalità, oppure nel partecipante, appunto come «parte». Perciò un rapporto di partecipazione richiede necessariamente tre istanze: il partecipante al quale si attribuisce una formalità o un atto in maniera parziale; la perfezione partecipata in quanto si dice intrinsecamente e quindi parzialmente del partecipante; e la perfezione partecipata in quanto viene contemplata in sé in maniera totale ed in qualche modo estrinseca al partecipante.
            Ora le perfezioni partecipabili si dividono in due classi assai differenti, a seconda che vengono predicate dei singoli partecipanti univocamente o analogicamente. L’esistenza stessa del primo tipo di partecipazione può destare qualche sorpresa. Sappiamo infatti che una nozione univoca si attribuisce nello stesso modo a tutti i suoi inferiori, sia che si tratti di una specie rispetto agli individui, oppure di un genere rispetto alle sue specie. Quindi sembra che non si dà, in questo caso, un vero rapporto di partecipazione fra il soggetto ed il predicato, perché tutta la perfezione significata da questo viene ricevuta da quello, e non soltanto un parte: che un singolare tiglio sia grande o piccolo, vecchio o giovane, esso possiede la natura del tiglio né più né meno di un altro. In realtà, questa stretta unità nei molteplici vale certamente per la ratio dell’universale univoco, ma non completamente per le res alle quali esso viene attribuito. Fra le specie di un genere, l’identità generica formale comporta allo stesso tempo una gerarchia specifica reale, per cui le specie animali non hanno tutte lo stesso spessore ontologico: «omnia animalia sunt aequaliter animalia, non tamen sunt aequalia animalia, sed unum animal est altero maius et perfectius»[2]. Mutatis mutandis, lo stesso accade con il rapporto degli individui sussistenti alla loro specie[3]. Oltre questa giustificazione comune del ricorso alla partecipazione nell’ambito delle formalità univoche, si deve poi ricordare che già lo Stagirita, nelle Categorie, sosteneva che certe categorie o sottocategorie ammettono il più e il meno, senza lasciare di avere una ratio essenzialmente una: alcuni tipi di relazione, la prima e la terza specie di qualità, l’azione e la passione[4]. Gli abiti e le qualità sensibili, in particolare, hanno sì la stessa essenza, ma vengono ricevute dal soggetto in cui ineriscono secondo una intensità maggiore o minore: perciò una superficie sarà più o meno bianca a seconda del modo in cui la superficie partecipa alla bianchezza, e una persona sarà più o meno temperante a secondo del modo in cui il suo concupiscibile partecipa alla temperenza. A questa variazione della misura di partecipazione che proviene dal soggetto, alcuni abiti, fra i quali le scienze, ne aggiungono un’altra che deriva dal loro oggetto materiale. Per questa ragione, un matematico può essere più o meno esperto di un altro sia perché il suo intelletto possibile è più o meno ricettivo nei confronti della seconda scienza speculativa, sia anche perché egli coglie un maggior o minor numero di conclusioni materiali a partire dallo stesso oggetto formale della matematica[5].
            Da questo breve abbozzo risulta che una formalità colta attraverso una nozione univoca può essere partecipata in maniera differenziata nelle cose in cui viene realizzata in tre modi diversi ma non esclusivi: o perché, pur avendo eventualmente la stessa intensità, la perfezione in causa viene comunque individualizzata dai suoi soggetti; o perché la sua intensità varia a seconda dei suoi soggetti; o ancora perché la sua intensità cambia anche a seconda dei suoi oggetti materiali. Sottolineiamo che, in tutti questi casi, la perfezione partecipata non esiste al di fuori dei soggetti partecipanti, cosicché il partecipato estrinseco totale si dà soltanto nell’intelletto.
            Le categorie, e quindi tutte le formalità oggettivate in nozioni univoche, sono delle contrazioni dello ens, che le precede e le trascende, per cui appartiene ad un altro ordine, quello trascendentale. Esso si distingue da quello predicamentale non soltanto a causa della riduzione noetica di tutte le nozioni alla ratio entis, ma sopratutto a causa della fondazione metafisica di tutte le perfezioni, formali e reali, nel principio risolutivo dell’ente che è lo esse in senso forte, ossia l’atto di essere[6]. Non potendo, in questa sede, percorrere tutta la via che porta a questa ultima resolutio dell’ente in quanto ente, ne assumiamo i risultati più significativi per la nostra problematica, in un prospetto dunque più sapienziale che scientifico[7].
                        Per l’Aquinate, la frontiera ontologica primordiale non è più quella che separa il mondo materiale da quello immateriale, come lo pensavano le metafisiche socratiche, ma quella molto più radicale che stacca l’Essere per essenza, che è Dio, dagli enti per partecipazione, che sono gli enti creati (i quali ovviamente si dividono poi in corporei e spirituali). In questo quadro, lo statuto ontologico fondamentale di un ente si definisce a partire dal suo rapporto all’atto di essere, giacché «hoc vero nomen Ens, imponitur ab actu essendi»[8]. Quindi la partizione originaria della perfezione ossia dell’attualità si fa ormai fra il maxime ens che è il suo essere, e gli altri enti, che hanno parte all’essere, ma non sono il loro essere. In un secondo momento, consecutivo alla creazione, si distingue negli enti quelli che in senso forte hanno l’essere in sé stessi, e perciò sono sostanze, e quelli che invece hanno l’essere in un altro, e sono allora accidenti, fra i quali ci sono quelli formali statici e quelli operativi dinamici. Più precisamente, il lemma ens scomponendosi in id quod est[9], possiamo cogliere in ognuna di queste tre parole una istanza della ratio entis integralmente considerata: in quanto l’ente «è» (est), esso implica una certa attualità, a sua volta fondata nell’atto di essere; in quanto l’ente è un «che» (quod), esso possiede una certa essenza, intesa come determinazione della sua attualità; e in quanto l’ente è un «ciò» (id), esso è il soggetto dell’essere in atto in causa, oppure rimanda ad un soggetto in cui tale ente inerisce. Tornando sulla costituzione ontologica propria ad ogni tipo di ente, ci troviamo allora di fronte a tre configurazioni diverse delle tre istanze che abbiamo riperite.

•          L’Essere sussistente puro
            Nel corpus thomisticum, Dio viene caratterizzato quattordici volte come ipsum esse subsistens. Questi tre termini cumulati caratterizzano molto bene lo statuto ontologico proprio a Dio. Egli è quindi esse, in tutta la sua virtus essendi, senza alcuna contrazione o restrizione. Perciò, egli è pure ipsum esse, non avendo altra essenza o quiddità che l’essere stesso:

Esse autem Dei, cum non sit in aliquo receptum, sed sit esse purum, non limitatur ad aliquem modum perfectionis essendi, sed totum esse in se habet; et sic sicut esse in universali acceptum ad infinita se potest extendere, ita divinum esse infinitum est[10].

Questo Essere non essendo ricevuto in una essenza o in un soggetto da lui diverso, egli è inoltre ipsum esse subsistens, perché sussiste in sé stesso. In Dio vi è quindi una totale identità ontologica fra l’essere, l’essenza e la sussistenza.

•          L’ente per partecipazione sussistente
            Lo esse subsistens non potendo essere che uno solo, ogni altro ente è un ens per participationem, nel quale vi è una differenza ontologica fra ciò che è, da una parte, e l’essere grazie al quale è ciò che è, d’altra parte. In senso forte, l’ente per partecipazione è la sostanza creata, che risulta dalla composizione fra un atto di essere partecipato, da un lato, e una natura partecipante d’altra parte:

Manifestum est enim quod primum ens, quod Deus est, est actus infinitus utpote habens in se totam essendi plenitudinem, non contractatam ad aliquam naturam generis uel speciei; unde oportet quod ipsum esse eius non sit esse quasi inditum alicui nature que non sit suum esse, quia sic finiretur ad illam naturam: unde dicimus quod Deus est ipsum suum esse. Hoc autem non potest dici de aliquo alio: sicut enim impossibile est intelligere quod sint plures albedines separatae – set si esset albedo separata ab omni subiecto et recipiente, esset una tantum -, ita impossibile est quod sit ipsum esse subsistens nisi unum tantum. Omne igitur quod est post primum ens, cum non sit suum esse, habet esse in aliquo receptum, per quod ipsum esse contrahitur: et sic in quolibet creato aliud est natura rei que participat esse et aliud ipsum esse participatum. Et cum quelibet res participet per assimilationem primum actum in quantum habet esse, necesse est quod esse participatum in unoquoque comparetur ad naturam participantem ipsum sicut actus ad potentiam[11].

Lo esse della sostanza categoriale viene dunque ricevuto e misurato da una essenza che esercita la doppia mansione di soggetto recipiente e di principio di specificazione. Perciò, l’essenza creata deve essere considerata da due punti di vista diversi. In sé stessa, essa è una potentia essendi correlativa allo actus essendi, entrambi essendo i principi correlativi che fanno essere l’ente sostanziale, ma che non sono enti. Se si considera invece l’essenza attualizzata, allora essa non è più potenza, ma è già l’essenza reale alla quale spetta la sua attualità formale propria. Questa essenza realizzata è propriamente «id quod habet esse», e quindi sussiste perché ha l’essere in sé e non in altro, senza che occorra postulare alcuna terza istanza a questo scopo.

•          L’ente per partecipazione inerente
            La sostanza creata in atto è quindi la sintesi di un atto di essere e di una potenza di essere, per cui essa si trova simultaneamente, ma non sotto lo stesso rapporto, in atto e in potenza. Ora il proprio della potenza è di contrarre, mentre quello dell’atto è di espandersi: «natura cuiuslibet actus est, quod seipsum communicet quantum possibile est»[12]. Da questa polarità provengono necessariamente, nel supposito creato, gli accidenti propri, di cui la sostanza è il principio attivo in quanto è in atto, mentre ne è il principio passivo mentre è in potenza. Sebbene l’Aquinate non operi esplicitamente questa riduzione dell’attualità accidentale a quella dello esse fontale, egli vi si avvicina tuttavia assai :

Actualitas per prius invenitur in subiecto formae accidentalis, quam in forma accidentali: unde actualitas formae accidentalis causatur ab actualitate subiecti. Ita quod subiectum, inquantum est in potentia, est susceptivus formae accidentalis: inquantum autem est in actu, est eius productivum[13].

Infatti, se recepiamo la tesi secondo cui lo esse è l’attualità di tutti gli atti[14] col dovuto rigore epistemologico, dobbiamo allora ricondurre apoditticamente l’attualità del soggetto, che causa quella della forma accidentale, all’atto originario di essere. Ne risulta che l’essere in atto dell’accidente è altro da quello della sostanza, ma ne deriva; similmente, la forma accidentale differisce dall’essenza sostanziale, ma inerisce nella sostanza.


            L’ontologia sommaria che abbiamo appena abbozzata fa apparire, nell’ente creato, due rapporti di partecipazione analogica, diversi ma subordinati fra di loro. Il primo fu esplicitamente insegnato dall’Aquinate dall’inizio alla fine della sua carriera, e riguarda la dipendenza costitutiva che unisce la sostanza creata al Creatore. Essa si compone di un partecipante, l’essenza sostanziale creata, e di un partecipato ad essa immanente, l’atto di essere creato. Quest’ultimo viene detto partecipato perché partecipa ad un partecipato estrinseco e trascendente, che è l’Essere increato, secondo la misura specificante data dall’essenza. La metafisica coglie questa rapporto di partecipazione estrinseca con la resolutio secundum rem, grazie alla quale si raggiunge il principio trascendente dell’ente in quanto ente.
            Il secondo rapporto di partecipazione è meno esplicito nel corpus thomisticum, ma è coerente con il primato dell’atto di essere partecipato. Infatti, «ipsum esse est actus ultimus qui participabilis est ab omnibus ; ipsum autem nichil participat»[15]. In questa ottica, i diversi livelli di attualità del supposito non sono altro che delle partecipazioni all’atto originario di essere concatenate fra di loro: l’atto di essere viene partecipato direttamente dalla sostanza in atto, alla quale partecipano le forme accidentali ed in particolare le potenze operative del vivente, all’attualità virtuale della quali, a sua volta, partecipano le operazioni. La metafisica oggettiva questo rapporto di partecipazione intrinseca con la resolutio secundum rationem, nella quale si analizza i principi immanenti dell’ente in quanto ente.
            All’opposto di quanto accade per le perfezioni esprimibili con una nozione univoca, la partecipazione all’essere si radica nella realtà propria del partecipato estrinseco, cioè dello Ipsum esse subsistens, attraverso gli anelli dello esse immanente, della sostanza, delle forme accidentali e delle operazioni. Questa catena di partecipanti e di partecipati presuppone ciò che Cornelio Fabro chiama il «principio di emergenza dell’atto»:

poiché l’atto in quanto tale sta in se stesso come affermazione semplice ed “emerge” perciò sulla potenza alla quale può andar unito, l’esse che è l’atto di essere, atto di ogni atto e di ogni forma emerge su tutto l’ordine formale, su qualsiasi essenza[16].

L’atto di essere supera quindi il piano delle forme, e per questa ragione esso non viene assorbita dall’essenza che esso attua, ma trapela per così dire al di là della sostanza, nelle proprietà accidentali ordinate all’agire. La partecipazione manifesta così la generosità dello esse, che si fonda sulla sua trascendenza relativa rispetto all’essenza, e che è proporzionale a questa ultima. Tanto più aperta è l’essenza all’attuare dello esse, quanto più nobile sarà l’agire del soggetto così costituito: l’angelo conosce ed ama Dio e sé stesso, mentre la rosa si limita a nutrirsi ed a emanare il suo profumo. Ma qualunque sia il grado che l’ente occupa nella scala degli enti, il suo atto di essere tenderà sempre a diffondersi in qualche attività consecutiva alla sostanza e da essa misurata. Infatti, «agere autem, quod nihil est aliud quam facere aliquid in actu, et per se proprium actus, inquantum est actus»[17], e questa proprietà concerne in primo luogo lo esse che è atto per antonomasia.
            A questo punto, si intuisce già che le diverse novità dottrinali che abbiamo elencate nel Vaticano II troveranno nella metafisica della partecipazione, sopratutto analogica, uno strumento particolarmente atto ad offrirne un’ermeneutica che ne faccia capire l’armonia interna nonché il loro radicamento nel mistero di Cristo in cui abita ogni pienezza[18]. Ma siccome abbiamo pure rilevato che il corpus conciliare è stato non di rado oggetto di letture deformanti, conviene pure che identifichiamo le possibili negazioni della partecipazione, che logicamente conducono a tradire lettera e spirito dell’ultimo Concilio.
            In quanto tale, il partecipante si definisce per il suo rapporto al partecipato estrinseco, che deve pertanto essere la perfezione partecipata al grado massimo, realmente come l’Essere sussistente, o perlomeno intenzionalmente come l’essenza universale e per sé univoca. Quindi se, lungi dall’emergere sopra i partecipanti, il partecipato venisse intrinsecamente storicizzato, la partecipazione perderebbe il suo fulcro e sparirebbe. Di conseguenza, i partecipanti smetterebbero di essere tali, e lascerebbero il posto ad una molteplicità sprovvista di principio di ordine ad essa superiore. Le singole componenti di un tale tutto an-archico starebbero fra di loro in un rapporto di alterità pura, che già Platone, nell’ottava ipotesi del Parmenide, riteneva autocontraddittorio:

Ancora una volta torniamo all’inizio per dire che cosa deve risultare se l’Uno non è mentre gli Altri dall’Uno sono. – Diciamolo. – Dunque, gli Altri non saranno Uno. – In effetti, come lo potrebbero? – Ma nemmeno molti: in quelli che sono molti, deve esserci anche l’Uno. Se infatti nessuno di questi è Uno, il totale è niente, e quindi non sono nemmeno molti. – Vero. – Se quindi l’Uno non è negli Altri, gli Altri non sono né molti né uno. – Infatti, non lo sono[19].

Per evitare questa implicazione, si potrebbe postulare che gli elementi del tutto non distinguendosi più gli uni dagli altri in virtù di riferimenti differenziati ad un primo emergente, essi convergano tuttavia verso un medesimo «orizzonte», che fungerebbe allora da sostituto del fondamento trascendente. È ciò che accade nel pensiero ermeneutico, là dove esso si presenta come alternativo a quello metafisico. Ma siccome l’orizzonte interpretativo viene strettamente legato alla temporalità, cosicché viene addirittura rielaborato da ogni rilettura che riesce a dominare la cultura del suo evo[20], esso non costituisce mai un vero principio architettonico. Pertanto, fra ciò che per noi sarebbe la dissoluzione delle parti nello pseudo tutto ermeneutico determinato dallo Zeitgeist, da un lato, e ciò che consideriamo invece come la loro necessaria risoluzione nella loro ρχή emergente e trascendente, d’altro lato, vediamo alla fine dei conti una insuperabile opposizione di contraddizione, anche se essa non ci impedisce di integrare alcuni aspetti valorizzati dall’altra parte, però in una configurazione globale toto caelo diversa.
            A questa negazione immanentista della partecipazione si oppone un’altra, che muove da una falsa comprensione della trascendenza. Se ciò che si impone alla coscienza venisse primariamente inteso come essenza, e non come ente, allora ci troveremo dinanzi ad un universo di oggetti specifici di cui ognuno è o non è, ma non ammette alcuna variazione secondo il più e il meno. Infatti, le essenze sono come dei numeri, i quali cambiano specie se si aggiunge o si sottrae qualcosa alle loro note costituenti, come nota giustamente lo Stagirita[21]. Quindi un’essenza può ammettere tutt’al più una partecipazione univoca, che lascia intatte tutte quante le sue note definitorie; ma non può essere sottomessa ad una partecipazione analogica, proprio perché l’analogia implica una somiglianza relativa in una diversità essenziale. Perciò, un’essenza formalmente considerata in quanto essenza starà alle altre essenze come l’Uno rispetto agli Altri nella quarta ipotesi del Parmenide:

Diciamo pure dall’inizio, se l’Uno è, quali affezioni devono avere gli Altri dall’Uno. – Diciamolo pure. – Allora l’Uno non è forse separato dagli Altri e gli Altri dall’Uno? – Perché? – Perché in qualche modo non c’è una realtà oltre a queste due che sia ulteriore all’Uno e agli Altri: quando si è detto l’Uno e gli Altri si è significato tutto. – Tutto infatti. – Non vi è quindi nient’altro di diverso da questi, in cui l’Uno e gli Altri possano trovarsi insieme. – No, infatti. – L’Uno e gli Altri non sono mai insieme. – Sembra di no. – Sono dunque separati? – Sì[22].

Così come gli Altri appaiono in questa ottica come semplicemente altri, quindi separati dall’Uno, così anche le essenze specifiche b, c, d, saranno semplicemente altre e separate dall’essenza a. Perciò, una metafisica essenzialista come quella di Suárez non vede nulla di comune fra gli enti, se non il puro possibile, che può essere colto o in sé, come ciò che è capace di esistere, oppure a partire dalla sua causa prima, come ciò che Dio può produrre realmente[23]. In entrambi i casi, l’ente non è più ciò che ha parte allo esse, ma si riduce a ciò la cui esistenza non sarebbe contraddittoria.
            Contro la dissoluzione del partecipato nel divenire dei partecipanti, l’Aquinate afferma vigorosamente l’immutabilità dell’atto di essere, non solo in Dio, ma in ogni ente sostanziale: «Esse autem est aliquid fixum et quietum in ente»[24]; e contro l’impossibilità (o l’irrilevanza) della partecipazione, egli asserisce che «secundum rei veritatem causa prima est supra ens in quantum est ipsum esse infinitum, ens dicitur autem id quod finite participat esse»[25]. Costituito da un atto di essere fisso che partecipa all’Essere divino secondo la misura determinata dalla sua essenza, l’ente dispone di una certa virtus essendi proporzionata alla sua forma[26], nella quale si radicano tutte le partecipazioni posteriori a quella della sostanza stessa. In questa luce, la partecipazione si rivela come la colonna sulla quale si regge sia la realtà che la scienza dell’essere, une colonna che sale oltre i confini del creato.



[1] Tommaso d’Aquino, Expositio libri Boetii De ebdomadibus, lc. 2.
[2] Tommaso d’Aquino, QD De malo, q. 2 a. 9 ad 16.
[3] Cf. Tommaso d’Aquino, Sententia super librum De caelo et mundo I, lc. 19 n. 14: «Singula autem individua rerum naturalium quae sunt hic, sunt imperfecta; quia nullum eorum comprehendit in se totum quod pertinet ad suam speciem».
[4] Cf. Aristotele, Categorie 7, 6 b 19-27 (relazione); 8, 10 b 26 – 11 a 14 (qualità); 9, 11 b 1-8 (azione e passione).
[5] Cf. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, Ia-IIae, q. 52 a. 1c: «cum habitus et dispositiones dicantur secundum ordinem ad aliquid, ut dicitur in VII Physicorum, dupliciter potest intensio et remissio in habitus et dispositionibus considerari. Uno modo, secundum se: prout dicitur maior vel minor sanitas; vel maior vel minor scientia, quae ad plura vel pauciora se extendit. – Alio modo, secundum participationem subiecti: prout scilicet aequalis scientia vel sanitas magis recipitur in uno quam in alio, secundum diversam aptitudinem vel ex natura vel ex consuetudine». Su tutta la questione della partecipazione predicamentale, cf. Cornelio Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo S. Tommaso d’Aquino, [Opere Complete, 3], Editrice del Verbo Incarnato, Segni 2005, 143-181.
[6] Cf. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae I, q. 8 a. 1c: «Esse autem est illud quod est magis intimum cuilibet, et quod profundius omnibus inest: cum sit formale respectu omnium quae in re sunt».
[7] Nel nostro studio Alain Contat, «L’étant, l’esse et la participation selon Cornelio Fabro», Revue thomiste 111 (2011), 357-403, abbiamo esaminato le tappe della resolutio metafisica in modo sistematico; poi in Id., «Esse, essentia, ordo. Verso una metafisica della partecipazione operativa», Espíritu 61/143 (2012), 9-71, abbiamo cercato di evidenziare le implicazioni operative della partecipazione trascendentale.
[8] Tommaso d’Aquino, Sententia super Metaphysicam IV, lc. 2 n. 6 (Marietti, n. 553).
[9] Cf. Tommaso d’Aquino, Expositio libri Boetii De ebdomadibus, lc. 2: «Set id quod est siue ens, …».
[10] Tommaso d’Aquino, QD De potentia, q. 1 a. 2c.
[11] Tommaso d’Aquino, QD De spiritualibus creaturis, a. 1c.
[12] Tommaso d’Aquino, QD De potentia, q. 2 a. 1c.
[13] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae I, q. 77 a. 6c.
[14] Cf. il celebre brano di Tommaso d’Aquino, QD De potentia, q. 7 a. 2 ad 9: «hoc quod dico esse est actualitas omnium actuum, et propter hoc est perfectio omnium perfectionum».
[15] Tommaso d’Aquino, QD De anima, q. 6 ad 2.
[16] Cornelio Fabro, Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d’Aquino, [Opere Complete, 19], EDIVI, Segni 2010, 43.
[17] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae I, q. 115 a. 1c.
[18] Cf. Col. 1, 19-20: «Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza, e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose».
[19] Platone, Parmenide, 165 e. Seguiamo il modo di elencare le ipotesi proposto da Giovanni Reale in Platone, Tutti gli scritti, Rusconi, Milano 1991, 375-376. Auguste Diès, in Platon, Œuvres complètes, t. VIII – 1, Parménide, Les Belles Lettres, Paris 1959, 39 e 114, classifica questa ipotesi come nona (ed ultima).
[20] Cf. ad esempio Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo, trad. it. a cura di Gianni Vattimo, Bompiani, Milano 2000, 633: «In realtà, l’orizzonte del presente è sempre in atto di farsi, in quanto noi non possiamo far altro che mettere continuamente alla prova i nostri pregiudizi».
[21] Cf. Aristotele, Metafisica Η, 3, 1044 a 9-11: «E come il numero non ha il più e il meno, così neppure la sostanza intesa nel significato di forma».
[22] Platone, Parmenide, 159 b-c. Per Auguste Diès, op. cit., 36 e 104, si tratta della quinta ipotesi.
[23] Cf. Francisco Suárez, Disputationes metaphysicae, II, sect. 4 n. 7: «[...] dicimus essentiam esse realem, quae a Deo realiter produci potest, et constitui in esse entis actualis. Per intrinsecam autem causam non potest proprie haec ratio essentiae explicari, quia ipsa est prima causa vel ratio intrinseca entis, et simplicissima, ut hoc communissimo conceptu essentiae concipitur; unde solum dicere possumus, essentiam realem, eam esse quae ex se apta est esse, seu realiter existere».
[24] Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles I, c. 20 n. 27 (Marietti, n. 179).
[25] Tommaso d’Aquino, Super Librum De Causis, lc. 6.
[26] Cf. Cf. Tommaso d’Aquino, Sententia super librum De caelo et mundo I, lc. 6 n. 5: «Unde tantum et tamdiu habet unaquaeque res de esse, quanta est virtus formae eius. Et sic non solum in corporibus caelestibus, sed etiam in substantiis separatis est virtus essendi semper». L’importante tema della virtus essendi è stato trattato da Fran O’Rourke, «Virtus Essendi: Intensive Being in Pseudo-Dionysius and Aquinas», Dionysius 15 (1991), 31-80.

La tematica della partecipazione in cinque luoghi cruciali del Vaticano II


            Questo blog è intitolato participatio, perché vediamo nella partecipazione sia la cifra della creazione dell’universo che della santificazione delle creature spirituali. Per questa ragione, ci sembra pure che il Concilio Vaticano II debbono essere lette in questa chiave. In questa nota, proponiamo un breve inventario delle novità conciliari che sollecitano l’attenzione del teologo in questa direzione.

a)        Il subsistit in della costituzione dogmatica Lumen Gentium ed altri documenti
Come è risaputo, la Costituzione dogmatica Lumen Gentium ha voluto superare la definizione bellarminiana della chiesa come società, con una visione più profonda, in cui la Chiesa viene contemplata, secondo una scansione trinitaria, come popolo di Dio (di Dio Padre), corpo di Cristo, e tempio dello Spirito. In questa concezione, la Chiesa cattolica viene considerata come ciò in cui sussiste la Chiesa di Cristo:

Haec Ecclesia, in hoc mundo ut societas constituta et ordinata, subsistit in Ecclesia catholica, a successore Petri et Episcopis in eius communione gubernata, licet extra eius compaginem elementa plura sanctificationis et veritatis inveniantur, quae ut dona Ecclesiae Christi propria, ad unitatem catholicam impellunt[1].

La stessa dottrina viene ribadita ben altre due volte nei documenti del Concilio: nel Decreto Unitatis Redintegratio sull’ecumenismo[2], poi nella dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa «Hanc unicam veram religionem subsistere credimus in catholica et apostolica Ecclesia»[3]. «Ecclesia [...] subsistit in Ecclesia catholica»: quale senso dobbiamo assegnare al verbo subsistit? Il significato comune, non ancora tecnico, del termine sarebbe «ha consistenza»; ma ciò che dà consistenza ontologica a qualcosa non essendo altro, per il teologo che sa di metafisica, che l’essere, non possiamo non tradurre questa celebre affermazione, nella presente ricerca, dicendo che «la Chiesa di Cristo ha propriamente l’essere nella Chiesa cattolica»[4]. Tale interpretazione ci permette di comprendere che, da un lato, la Chiesa di Cristo viene realizzata in pienezza solo nella Chiesa cattolica, e poi che, d’altro lato, ci sono elementi di santificazione e di verità al di fuori di quest’ultima. Questi elementi, come indica la stessa parola, sono per natura loro parziali, e dunque vanno interpretati come partecipazioni a ciò che sussiste nella Chiesa cattolica, sia dal punto di vista del loro essere che da quello del loro dinamismo, poiché essi «spingono all’unità cattolica».
            La nostra lettura può appoggiarsi su un importante documento della Congregazione per la Dottrina della Fede del 29 giugno 2007, approvato e confermato dal papa Benedetto XVI:

Dum secundum doctrinam catholicam recte dici potest, Ecclesiam Christi in Ecclesiis et communitatibus ecclesialibus nondum plenam communionem cum Ecclesia catholica habentibus ad esse et operari propter sanctificationis et veritatis elementa quae in illis sunt, verbum "subsistit" soli Ecclesiae catholicae ut singulare tantum attribuitur, quia refertur nempe ad notam unitatis in symbolis confessam (Credo…unam Ecclesiam); quae Ecclesia una subsistit in Ecclesia catholica[5].

Sebbene il verbo «partecipare» non venga usato né nel numero 8 della Lumen Gentium, né nella nota della C.D.F., questi documenti insegnano chiaramente che la Chiesa cattolica beneficia, in questo mondo, della totalità dei mezzi di salvezza, mentre le comunità acattoliche ne hanno solo una parte. Quando queste hanno conservato intatti il sacerdozio ministeriale e l’eucaristia, sono delle vere Chiese, mentre sono soltanto delle comunità ecclesiali quando ne sono private[6].

b)        I media salutis del decreto Unitatis Redintegratio
            Il decreto sull’ecumenismo elenca diversi mezzi di salvezza presenti ed operanti al di fuori dei confini visibili della Chiesa cattolica:

Nihilominus, iustificati ex fide in baptismate, Christo incorporantur, ideoque christiano nomine iure decorantur, et a filiis Ecclesiae catholicae ut fratres in Domino merito agnoscuntur. Insuper ex elementis seu bonis, quibus simul sumptis ipsa Ecclesia aedificatur et vivificatur, quaedam immo plurima et eximia exstare possunt extra visibilia Ecclesiae catholicae saepta: Verbum Dei scriptum, vita gratiae, fides, spes et caritas, aliaque interiora Spiritus Sancti dona ac visibilia elementa: haec omnia, quae a Christo proveniunt et ad Ipsum conducunt, ad unicam Christi Ecclesiam iure pertinent. [...] Proinde ipsae Ecclesiae et Communitates seiunctae, etsi defectus illas pati credimus, nequaquam in mysterio salutis significatione et pondere exutae sunt. Iis enim Spiritus Christi uti non renuit tamquam salutis mediis, quorum virtus derivatur ab ipsa plenitudine gratiae et veritatis quae Ecclesiae catholicae concredita est[7].

Il primo fondamento di questa comunione imperfetta non solo con gli altri singoli cristiani, ma anche con le altre comunità cristiane, si trova nel binomio di fede interiore e di battesimo esteriore, che già rispecchia la natura incarnata della Chiesa. Nel seguito del brano si elencano, nella stessa unità / dualità di interiorità e di esteriorità la vita della grazia con la fede, la speranza e la carità, da una parte, poi la Parola scritta di Dio, d’altra parte. Il documento sottolinea che questi doni interiori ed elementi visibili provengono da Cristo ed a Lui conducono; poi, un può più avanti, una formula molto bilanciata precisa che la virtù salvifica di questi mezzi di santificazione deriva dalla pienezza di grazia e di verità «quae Ecclesiae catholicae concredita est», che è stata affidata alla Chiesa cattolica. Il sintagma «plenitudo gratiae et veritatis» rieccheggia il prologo del IV. Vangelo, ed è una proprietà del Verbo Incarnato, «gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità»[8].
            Riguardo alla differenza fra la Chiesa cattolica e le Chiese o comunità non cattoliche, san Giovanni Paolo II precisò, nell’enciclica Ut unum sint! del 25 maggio 1995, quanto segue:

Elementa huius Ecclesiae iam datae exsistunt, in sua plenitudine coniuncta, in Ecclesia catholica et, sine hac plenitudine, in ceteris Communitatibus, ubi mysterii christiani quidam aspectus efficacius interdum sunt in luce positi[9].

I mezzi di santificazione che provengono da Cristo si trovano dunque nella loro pienezza nella Chiesa cattolica, e si riscontrano pure nelle altre comunità cristiane, ma senza questa pienezza. Poi Giovanni Paolo II riconosce che tali altre comunità, alle volte, mettono meglio in luce certi aspetti del mistero cristiano. È come dire che l’esercizio dei doni del Signore, non la loro natura, può essere anche più convincente in gruppi acattolici.
            Da quanto abbiamo, per il momento, semplicemente letto nel Concilio e nel Magistero postconciliare autentico, emerge già un quadro dottrinale assai chiaro: c’è una pienezza di salvezza che sta, di per sé, nell’umanità del Verbo Incarnato. Questa pienezza, in primo luogo, viene affidata, tramite l’organismo dei mezzi interni ed esterni di santificazione, alla Chiesa cattolica, in cui solo sussistono nella loro integralità. In secondo luogo, poi, una partecipazione più o meno intensa ai doni di Cristo, si riscontra fuori dei confini visibili della Chiesa cattolica, e ciò secondo due grandi modalità essenzialmente diverse: nelle Chiese separate, la nota di ecclesialità si trova realizzata grazie al settenario sacramentale, anche se manca il ministero petrino di unità; nelle altre comunità cristiane, principalmente nelle denominazioni provenienti dalla Riforma del Cinquecento, l’ecclesialità viene meno (o perlomeno è molto parziale), perché manca la successione apostolica, e con essa sopratutto il sacerdozio ministeriale e la santissima eucaristia.

c)         Il radium Veritatis della dichiarazione Nostra Ætate
            Un altro tipo di rapporto ontologico al mistero rivelato, assai più remoto, viene esposto nella dichiarazione Nostra Ætate sulle religioni non cristiane. Nel numero 2, questo documento tratta delle religioni anteriori alla rivelazione mosaico-cristiana, che si radicano nel senso religioso delle gentes, accennando all’induismo ed al buddismo. La dichiarazione nota al questo proposito:

Ecclesia catholica nihil eorum, quae in his religionibus vera et sancta sunt reicit. Sincera cum observantia considerat illos modos agendi et vivendi, illa praecepta et doctrinas, quae, quamvis ab iis quae ipsa tenet et proponit in multis discrepent, haud raro referunt tamen radium illius Veritatis, quae illuminat omnes homines[10].

Ci sembra che questo testo mette implicitamente a fuoco due coppie di distinzioni. La prima è quella che oppone l’oggettivo al soggettivo: soggettivamente, la Chiesa rispetta le espressioni del senso religioso che differiscono da ciò ch’essa promuove; oggettivamente, però, essa può accettare solo ciò che vi è di vero e di santo. Sotto questo aspetto, si coglie in quelle religioni « un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini», il che allude chiaramente ad un altro versetto del prologo di Giovanni: «Era la luce vera, quella che illumina ogni uomo»[11]. Ma di quale luce si tratta quando si applica questo versetto alle religioni estranee alla Rivelazione ? Di quella luce propria della fede teologale, o di quella che coinvolge primariamente l’apertura dinamica dello spirito creato verso il Trascendente? A questo quesito, troviamo una risposta nella dichiarazione Dominus Jesus emanata il 6 agosto 2000 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede:

Firmiter ergo tenenda est distinctio inter fidem theologalem et credulitatem quae invenitur in aliis religionibus. Dum enim fides acceptio est, vi gratiae, veritatis revelatae, quae una sinit “nos in mysterium ingredi intimum, cuius congruentem fovet intellectum”, credulitas aliarum religionum tributa in complexu illo innititur experientiae et cogitationis, qui divitiarum acervum sapientiae ac sensus religiosi efformat, mente conceptum ab hominibus veritatem quaerentibus ab eisque ad effectum deductum cum sese ad Divinum et Absolutum referunt[12].

Perciò, le religioni del mondo, in quanto espressioni del senso religioso e sacro dell’uomo, non sono di per sé in grado di mediare la fede teologale ovvero soprannaturale; ma esse si limitano ad attuare la tensione naturale dell’uomo verso la sfera del divino. Se questa precisione lascia intatta la libertà della ricerca teologica su ciò che può essere la virtù di fede allo stato implicito, che è  - come sappiamo -  necessaria per la salvezza eterna, essa tuttavia chiarisce che tale fede implicita sarà essenzialmente distinta dalla credulitas delle altre religioni. I due dinamismi, dello spirito che cerca di alzarsi al Trascendente, e della fede che ci fa aderire a Dio rivelatosi in Cristo, potranno essere fusi, fino ad un certo punto, nella coscienza del singolo; ma rimangono di natura intrinsecamente diversa. Lo stesso vale per un’altra metafora adoperata dal Concilio in un senso vicino, quella dei semina Verbi[13].
Da questa differenza risulta, per la nostra presente ricerca, un terzo livello, in ordine discendente, nella gerarchia di partecipazione che cerchiamo di evidenziare: quello dell’apertura sia costitutiva che operativa dello spirito creato rispetto alla salvezza, come plesso di rivelazione e di giustificazione. Qui non si dà ancora una vera e propria partecipazione stabile ed organica alla pienezza di grazia che è in Cristo, ma una predisposizione naturale ad essa, che la previene e, se si vuole, la anticipa, ma non può trasmetterla.

d)        La trascendenza degli atti religiosi nella dichiarazione Dignitatis Humanae
            Uno dei punti dove il carattere innovativo del Vaticano II rispetto al magistero ed alla prassi anteriori della Chiesa appare di più è la libertà religiosa, promossa dalla dichiarazione Dignitatis Humanae e successivamente assunta da tutti i Sommi Pontefici, in particolare da Giovanni Paolo II, a norma della «politica estera» della Santa Sede. Questa libertà consiste precisamente in una doppia imunità civile in materia religiosa, quella per cui il singolo non può essere costretto ad agire contro la sua coscienza, anche sbagliata, e quella per cui non può essere impedito di agire secondo coscienza:

Huiusmodi libertas in eo consistit, quod omnes homines debent immunes esse a coercitione ex parte sive singulorum sive coetuum socialium et cuiusvis potestatis humanae, et ita quidem ut in re religiosa neque aliquis cogatur ad agendum contra suam conscientiam neque impediatur, quominus iuxta suam conscientiam agat privatim et publice, vel solus vel aliis consociatus, intra debitos limites[14].

La lunga giustificazione di questo diritto, che si radica nella natura stessa della persona umana («in ipsa eius natura ius ad libertatem religiosam fundatur»[15]), si richiama alla trascendenza degli atti religiosi rispetto all’autorità politica:

Praeterea actus religiosi, quibus homines privatim et publice sese ad Deum ex animi sententia ordinant, natura sua terrestrem et temporalem rerum ordinem transcendunt. Potestas igitur civilis, cuius finis proprius est bonum commune temporale curare, religiosam quidem civium vitam agnoscere eique favere debet, sed limites suos excedere dicenda est, si actus religiosos dirigere vel impedire praesumat[16].

Questa tematica della trascendenza della persona umana è posta, nella costituzione pastorale Gaudium et Spes, a fondamento della riflessione antropologica ivi contenuta. Citiamo qua solo una breve formula particolarmente significativa:

Recte iudicat homo, divinae mentis lumen participans, se intellectu suo universitatem rerum superare[17].

È grazie alla partecipazione del suo intelletto alla luce della scienza divina, che la persona umana si colloca al di sopra delle cosmo materiale, e, di conseguenza, anche dell’ordine politico, in quanto esso è intrinsecamente legato ad uno spazio geografico e storico. Tale partecipazione, strettamente naturale, fonda, a sua volta, due caratteristiche strettamente correlative del soggetto umano dentro la tematica ecclesiologica del Concilio. Una è l’irriducibilità della sua dimensione religiosa all’ordine politico-sociale; l’altra è la sua capacità a ricevere le partecipazioni alla pienezza di grazia e di verità che in Cristo.

e)        Il duplice soggetto della potestà suprema sulla Chiesa
            nella Costituzione dogmatica Lumen Gentium
            Il Vaticano II si è pronunziato sulla Ecclesia Docens, completando l’insegnamento del Vaticano I. Questo ultimo aveva definito che il Romano Pontefice dispone di una potestà piena e suprema di giuridizione sulla Chiesa universale, in campo sia dottrinale che disciplinare[18]. Ora la Costituzione Lumen Gentium attribuisce anche al Collegio Episcopale questa pienezza della potestà gerarchica, il cui esercizio dipende però sempre dal consenso del Romano Pontefice:

Romanus enim Pontifex habet in Ecclesiam, vi muneris sui, Vicarii scilicet Christi et totius Ecclesiae Pastoris, plenam, supremam et universalem potestatem, quam semper exercere valet. Ordo autem Episcoporum, qui collegio Apostolorum in magisterio et regimine pastorali succedit, immo in quo corpus apostolicum continuo perseverat, una cum Capite suo Romano Pontifice, et numquam sine hoc Capite, subiectum quoque supremae ac plenae potestatis in universam Ecclesiam exsistit, quae quidem potestas nonnisi consentiente Romano Pontifice exerceri potest[19].

Subiectum quoque: ci sono dunque due soggetti della medesima potestas, che sono solo inadaguatamente distinti (in linguaggio scolastico, si direbbe per modum includentis et inclusi): il Romano Pontefice da solo, da una parte, e il Collegio Episcopale unito al Romano Pontefice, d’altra parte. La Nota explicativa praevia aggiunta alla Costituzione precisa chiaramente che il Collegio non è mai tale senza il Sommo Pontefice, a cui spetta da solo la determinazione e la promulgazione dell’attività collegiale[20]. Più formalmente ancora, la stessa Nota formula un’ulteriore distinzione fra l’esistere e l’agire del Collegio:

Collegium vero, licet semper exsistat, non propterea permanenter actione stricte collegiali agit, sicut ex Traditione Ecclesiae constat. A. v. non semper est « in actu pleno », immo nonnisi per intervalla actu stricte collegiali agit et nonnisi consentiente Capite[21].

Con questo dispositivo ecclesiologico, ci troviamo di fronte ad una configurazione ontologica assai originale. La stessa capacità operativa, analoga alla più alta potenza attiva di un supposito vivente, viene posseduta in atto primo da due soggetti, il cui secondo  - il Collegio – include il primo – il Romano Pontefice. A questo duplice soggetto corrispondono poi due modalità di attuazione: mentre la potestas del Sommo Pontefice passa all’atto secondo qualora egli lo vuole (ovviamente non in maniera arbitraria), quella dell’Ordine episcopale viene ultimamente attuata solo dal suo capo. Ne risulta che, in entrambi i casi, l’esercizio effetivo della potestà suprema non avviene mai contro il volere del Romano Pontefice[22]. Conviene notare che un simile ordinamento operativo non si riscontra al di fuori della Chiesa, né negli organismi biologici, né in quelli politici. Negli animali irrazionali, la testa è la sede dell’appetito sensitivo e l’origine della motricità, ma non può mai agire senza il corpo; e nell’uomo, è solo la volontà che può eleggere od imperare atti che siano veramente liberi, quindi umani. Per quanto riguarda i sistemi politici, le attuali costituzioni democratiche, che siano parlamentari o presidenziali, delegano solitamente il potere legislativo, fondato sulla sovranità popolare, ad una o due assemblee, la cui decisione maggoritaria costringe tutti, compreso il capo dello Stato; viceversa, la prassi e la dottrina dell’assolutismo attribuiva la sovranità al monarca in maniera esclusiva, anche se essa non era tirannica, perché era sottomessa al diritto naturale nonché alle leggi fondamentali del suo regno. Nella Chiesa invece, l’unica potestas suprema derivata da Cristo, e non dal popolo fedele, viene ricevuta, ed in questo preciso partecipata, dai due soggetti specificati dalla Lumen Gentium ed è sempre esercitata mediante la decisione o il consenso del successore di Pietro.


            Possiamo ora abbozzare un primo bilancio che farà apparire la rilevanza della nozione di partecipazione nella dottrina ecclesiologica del Vaticano II:

1.      Il subsistit ci indica che la Chiesa cattolica è, ed è sola, la Chiesa che dispone in pienezza dei mezzi di santificazione che provengono dal Signore. Diremo che la Chiesa cattolica, grazie alla partecipazione piena che riceve dai doni del Verbo Incarnato, è la Chiesa di Cristo per essenza.
2.     Gli elementi di santificazione presenti ed operanti nelle altre Chiese e comunità cristiane, godono soltanto di una partecipazione imperfetta ai mezzi di santificazione istituiti dal Signore. Perciò possiamo dire che tali Chiese e comunità realizzano la Chiesa di Cristo soltanto per partecipazione.
3.     I raggi di verità riscontrabili nelle religioni estrabibliche non partecipano in maniera stabile, di per sé, al mistero salvifico di Cristo e della sua Chiesa, ma vi possono disporre, e, nella misura in cui sono intrecciati con influssi ed appelli della grazia cristica, lo possono anticipare.
4.     La trascendenza della persona umana sull’universo temporale (Gaudium et Spes) e sull’ordinamento politico (Dignitatis Humanae) chiarisce lo statuto proprio del soggetto chiamato alle precedenti partecipazioni di fronte alla sua condizione terrestre, e quindi l’indole propria del partecipante.
5.      L’articolazione della suprema ed unica potestas magisteriale e giurisdizionale sulla Chiesa in due soggetti inadeguatamente distinti deve intendersi come due maniere di partecipare all’unica autorità profetica e regale del Signore.

Fra queste novità conciliari, le tre prime si scalano verticalmente, e per questa ragione possono essere ordinate in una gerarchia ontologica che scende dalla grazia capitale di Cristo fino ai semina Verbi, attraverso tre tipi essenzialmente diversi e disuguali di riferimento al corpo mistico dello stesso Cristo: partecipando alla pienezza di grazia del Signore, l’ecclesialità si trova per essenza nella Chiesa cattolica, per partecipazione più o meno intensa nelle chiese e comunità cristiane acattoliche, e solo per ordinazione estrinseca nelle verità professate nelle denominazioni religiose etniche. Il quarto insegnamento mostra che la dimensione religiosa della persona umana trascende, entro i dovuti limiti, il bene comune temporale. La quinta novità non riguarda più i membri, attuali o potenziali, del corpo mistico nella loro universalità, bensì la gerarchia apostolica, per evidenziare il modo del tutto sui generis in cui partecipa all’autorità di Cristo. Di fronte a questi dati, pensiamo che l’ecclesiologia debba chiedere alla metafisica dell’essere di aiutarla a cogliere l’intelligibilità specifica di questi rapporti differenziati di partecipazione.
            Contro questo tentativo, qualcuno potrebbe opporci l’intenzione stessa del Concilio. Sintetizzando quest’ultima in una formula assai concisa, Francesco ci dice infatti che «Il Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea»[23]. Ora la cultura del nostro tempo non è certamente attrata dall’ontologia né dalla teologia della partecipazione: quindi il nostro proposito sembrerà fuoriviante a più di uno. A questo genere di obiezione, è però facile dare una duplice risposta. Sul piano filosofico, per cominciare, non ci stancheremo mai di ribadire con l’Aquinate che «Intellectus autem omnino secundum suam naturam supra materiam elevatur»[24], cosicché l’anima umana, precisamente in quanto umana, emerge sopra la storicità e trascende i condizionamenti temporali. Posta questa premessa, il ricorso alla filosofia dell’essere diventa necessario per l’ermeneutica di qualunque concilio. Ma fu poi lo stesso Paolo VI, nel celebre discorso di chiusura del 7 dicembre 1965, a suggellare la preoccupazione antropologica del Concilio con una visione chiaramente meta-fisica:

Etenim ut nos hominem, hominem verum, hominem integrum penitus noscamus, Deum ipsum antea cognoscamus necesse est. Ad hoc probandum satis nunc sit haec recolere Sanctae Catharinae Senensis flammantia verba : « In tua natura, aeterne Deus, naturam meam cognoscam ». Tum catholica religio vita est, quia hominis naturam eiusque supremum finem ostendit, plenioremque sensum ei attribuit ; vita denique est, quia veluti suprema lex vitae est habenda, et quia vitae ipsi talem arcanam vim ei inicit, ut eam vere divinam efficiat[25].

Se la natura dell’uomo deve essere illuminata, in ultima analisi, da ciò che conosciamo della natura divina, allora possiamo a fortiori risolvere la dottrina del Vaticano II sulla Chiesa in una dialettica di partecipazione alla pienezza di grazia che si trova nell’anima del Verbo Incarnato.



[1] Lumen Gentium, n° 8, AAS 57/1 (1965), 12.
[2] Cf. Unitatis Redintegratio, n° 4, AAS 57/1 (1965), 95: «[...] in unius unicaeque Ecclesiae unitatem congregentur quam Christus ab initio Ecclesiae suae largitus est, quamque inamissibilem in Ecclesiae catholica subsistere credimus et usque ad consummationem saeculi in dies crescere speramus».
[3] Cf. Dignititatis Humanae, n° 1, AAS 58/14 (1966), 930: «Hanc unicam veram Religionem subsistere credimus in catholica et apostolica Ecclesia, cui Dominus Iesus munus concredidit eam ad universos homines diffundendi, dicens Apostolis: “Euntes ergo docete omnes gentes baptizantes eos in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti, docentes eos servare omnia quaecumque mandavi vobis” (Mt 28,19-20)».
[4] Sul tema del subsistit, segnaliamo l’investigazione storica di Alexandra von TEUFFENBACH, Die Bedeutung des subsistit in (LG 8) – Zum Selbstverständnis der katholischen Kirche, Herbert Utz Verlag, München 2002.
[5] Congregazione per la Dottrina della Fede, «Responsa ad quaestiones de aliquibus sententiis ad doctrinam de Ecclesia pertinentibus», n° 2, AAS 99/7 (2007), 606-607.
[6] Cf. Congregazione per la Dottrina della Fede, «Responsa ad quaestiones de aliquibus sententiis ad doctrinam de Ecclesia pertinentibus», n° 4-5, AAS 99/7 (2007), 607-608.
[7] Unitatis Redintegratio, n° 3, AAS 57/1 (1965), 93 (corsivo nostro).
[8] Giov. 1, 14.
[9] GIOVANNI PAOLO II, «Ut unum sint!», n° 14, AAS 87 (1995), 929.
[10] Nostra Ætate, n° 2, AAS 58/10 (1966), 741.
[11] Giov. 1, 9.
[12] Congregazione per la Dottrina della Fede, «Declaratio De Iesu Christi atque Ecclesiae unicitate et universalitate salvifica » [Dominus Iesus], n° 7, AAS 92/7 (2000), 748.
[13] Cf. Ad Gentes, n˚ 11, AAS 58/14 (1966), 959-960: «Ut ipsi hoc testimonium Christi fructuose dare possint, [...] laete et reverenter detegant semina Verbi in eis latentia»; n˚ 15, 963: «Spiritus Sanctus, qui omnes homines per semina Verbi praedicationemque Evangelii ad Christum vocat et in cordibus obsequium fidei suscitat [...]».
[14] Dignitatis Humanae, n° 2, AAS 58/14 (1966), 930.
[15] Ibid.
[16] Dignitatis Humanae, n° 3, AAS 58/14 (1966), 932.
[17] Gaudium et Spes, n° 15, AAS 58/15 (1966), 1036.
[18] Cf. Concilio Vaticano I, Constitutio dogmatica “Pastor Æternus” de Ecclesia Christi, cap. 3, canon, in Denzinger-Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum, Herder, Barcellona 1976, n˚ 3064: «Si quis itaque dixerit, Romanum Pontificem habere tantummodo officium inspectionis vel directionis, non autem plenam et supremam potestatem iurisdictionis in universam Ecclesiam, non solum in rebus, quae ad fidem et mores, sed etiam in iis, quae ad disciplinam et regimen Ecclesiae per totum orbem diffusae pertinent; aut eum habere tantum potiores partes, non vero totam plenitudinem huius supremae potestatis; aut hanc eius potestatem non esse ordinariam et immediatam sive in omnes ac singulas ecclesias sive in omnes et singulos pastores et fideles: anathema sit».
[19] Lumen Gentium, n˚ 22, AAS 57/1 (1965), 26.
[20] Cf. Nota explicativa praevia, n˚ 3, AAS 57/1 (1965), 74: «A. v. [aliis verbis] distinctio non est inter Romanum Pontificem et Episcopos collective sumptos, sed inter Romanum Pontificem seorsim et Romanum Pontificem simul cum Episcopis. [...] Romanus Pontifex ad collegiale exercitium ordinandum, promovendum, approbandum, intuitu boni Ecclesiae, secundum propriam discretionem procedit».
[21] Loc. cit., n˚ 4, 74. Le parole in corsivo sono quelle della Lumen Gentium.
[22] Perciò, Carlo Colombo potette osservare quanto segue in «Il significato della Collegialità episcopale nella Chiesa», Ius Canonicum 19/38 (1979), 17: «[...] i due soggetti non sono adeguatamente distinti, perchè il Romano Pontefice, oltre ad avere il suo potere personale in quanto Vicario di Cristo, appartiene anche al secondo, e ne è, anzi, parte essenziale. Più che a due soggetti ineguadatamente distinti, ci troviamo di fronte a due forme, personale e collegiale, di esercizio di un unico potere totale e universale, il potere di Cristo che viene da essi rappresentato».
[23] Antonio Spadaro, «Intervista a Papa Francesco», La Civiltà Cattolica 164/3918 (2013), 467.
[24] Tommaso d’Aquino, Compendium theologiae I, c. 84. Più esplicita ancora la Summa theologiae, I-II, q. 113 a. 7 ad 5: « Mens autem humana quae iustificatur, secundum se quidem est supra tempus, sed per accidens subditur tempori».
[25]  Paolo VI, «Homilia ad Patres Conciliares habita» [7 dicembre 1965], AAS 58/1 (1966), 58.